"Il conformismo è il carceriere della libertà e il nemico dello sviluppo". (John Fitzgerald Kennedy)
Perdonami, John, per quanto sto per rivelare.

C’è un attimo di sgomento quando sabato sera durante una cena fra amici esco dal bagno chiedendo a mio fratello se fosse suo quello shampoo nero dimenticato vicino alla vasca. Chi sapeva delle mie abitudini si è messo a ridere. Chi non sapeva, è rimasto con la salsiccia in bocca. Il problema non era lo shampoo: il problema era che lo shampoo era NERO, e nel bagno non c’è niente che possa stonare con i colori delle piastrelle, per cui tutto deve essere sui toni del verde, bianco o al massimo celeste. Il tutto si è semplicemente risolto in una panoramica scherzosa sulle mie “rifiniture di stile”, che i più razionali chiamano
ossessioni. Ma quando il giorno dopo mio padre mi ha chiesto se avessi già convertito il mio guardaroba da nero a bianco visto che era scattata l’ora legale, allora ci ho riflettuto un po’: se si è accorto lui, che non saprebbe ricordarsi il colore dei miei occhi, è preoccupante. E penso anche a quando il direttore della filiale di banca mi ha detto “Non ti avevo riconosciuta, così, vestita di nero. Sei sempre bianca...”, e io, abbagliata dalla tavolozza di colori mal assortiti della sua fantasiosa
mise, gli ho risposto con molta nonchalance “Adesso è autunno”, riscontrando nel suo sguardo perplessità e divertimento.
Il problema - che per me non è affatto un problema ma un semplice spunto di riflessione - è che la mia esteriorità è irrimediabilmente prevedibile. Qualcuno direbbe vittima della mediocrità, io preferirei gregaria del monotono, che almeno concede il beneficio di una scelta consapevole. Amo il formale e lo standard, la semplicità, l’equilibrio: quello che ai sedicenti originali piace definire “conformista” e ai più maligni “insulso”.
Nell’arredamento ogni elemento non è mai casuale, e l’accostamento dei colori sempre studiato. Nel vestire c’è solo bianco e nero, bianco d'estate, nero d'inverno, tinte naturali o al massimo qualche colore tenue. Mai gamme di verde chiaro, arancio, azzurri, rossi, fucsia o altri colori intensi che non siano giustificati da una forte presenza di bianco. Mai scritte, pois, quadretti, righe verticali, fantasie folk o floreali, maculati, zebrati, pitonati e tigrati. Concesso l’
optical rivisitato da Pollini e Gucci. Banditi gli inserti di ogni genere, ricami, pailettes, lustrini e borchiette, taschine inutili, cerniere e bottoni fuori posto. Mai a una gonna corta che non sia un tubino o un tailleur, mai ai tacchi alti se non d’inverno con i jeans rasoterra e il cappotto nero. Mai a un giacchino che non abbia un collo di pelliccia, o altri simili “must have” che qualcuno definirebbe degni di una mente bacata. Niente scarpe stravaganti. Borse - per le quali per altro ho una vera passione - non ne parliamo: non c’è un modello originale che mi attragga particolarmente, ma ogni futuro acquisto esiste preventivamente nella mia testa e può trovare o meno riscontro nella realtà. Non mi piacciono i gioielli insoliti, odio l’etnico e tutto quello che non è oro, argento, perla o trasparente. Per qualcuno è deprimente sapere che le mie spese esagerate sono giustificate dal fatto che un oggetto mi piaceva dieci anni fa così come potrebbe piacermi per altri vent’anni e che una volta consunto, sarei capace di ricomprarne un modello esattamente identico.
E tutto questo è quanto più comunemente viene definito “la fiera del banale”.
Fare shopping insieme alle mie amiche (tranne quelle più perspicaci) è diventato per loro noioso e per me frustrante nel dover rispondere ad ogni “Ohh, guarda questo...” un “Sì che bello” per non stroncarle continuamente con un laconico “Che schifo non lo metterei mai”. E se anche mia madre evita di farmi regali perché sostiene che i suoi gusti sono più moderni dei miei, qualcuno al mio posto potrebbe anche spaventarsi.
Ma non tento nemmeno di perorare la mia causa: sono io la convenzionale, l’abitudinaria, la bacchettona, la “normale”. Il peggio è che non me ne vergogno affatto. Anzi, mi diverto nel dare soddisfazione a chi si fregia di essere originale o addirittura avanguardista e sorride compassionevole se gli rivelo che la mia icona di stile è Jackie Kennedy, non Paris Hilton, che è meglio un Givenchy ieri che due Dolce&Gabbana oggi.
Aspetterò il mio momento di gloria, quando la fantasia sarà passata di moda e gli alternativi saranno in troppi per sentirsi unici...