Slava!
Era forse il 97 o il 98 la prima e unica volta in cui l’ho sentito suonare: già dieci anni fa non dicevi più vado a un concerto con Rostropovich ma vado a vedere Rostropovich. Perché, come succede sempre per i miti, anche quando vengono superati da talenti più giovani, restano sempre miti, e poter assistere a una loro esibizione significa aver catturato un pezzo di storia. Sono troppo giovane per aver visto danzare Nureyev o cantare la Callas, ma queste dita sul violoncello non me le sono perse. Erano mani nocchiute, pelle sulle ossa, quasi tremolanti. Ma facevano scivolare l’archetto sulle corde con un’esperienza che tradiva oltre mezzo secolo di musica, decine e decine di orchestre accompagnandolo alle spalle, sotto l’occhio di altrettanti direttori che ormai poteva anche permettersi di ignorare. E negli assolo di Dvorak anche gli orchestrali stavano a guardarlo. In quegli occhi che hanno letto milioni di note, in quel sorriso timido quasi indifferente all’ammirazione c’erano anche decenni di storia attraverso cui il suono del suo cello è filtrato, e resterà per sempre. Grazie Slava!