Io e il calcio
Tutti sanno che non amo il calcio. Anzi, di più: lo odio.
La sigla di “Novantesimo minuto”, accompagnata dal fischio della pentola a pressione e l’odore del brodo, conferiva alle mie domeniche un nonsoché di uggioso, quell’insostenibile e deprimente tedio che ti può far venir voglia perfino del lunedì. E’ da quelle odiose sere che ho cominciato a sviluppare l’avversione per il mondo calcistico. Una volta ho pensato anche di essere stata punita. Avevo otto anni quando mio nonno mi lasciò in macchina per un lasso di tempo troppo breve per chiamare telefono azzurro e troppo lungo per non imparare a memoria tutta la nazionale del ’78, visto che c’era da leggere solo il prezioso vademecum per i mondiali. Lo shock è stato talmente forte, che ancora oggi mi ricordo la formazione: Zoff, Cabrini, Boninsegna, Tardelli, Rossi, Conti, Sala, Gentile, Bettega, Scirea, Benetti, Causio... il che per me è un record.
Con un padre che si è sempre fregiato di una dote calcistica non sottovalutabile (che però nessun cronista dell’epoca ha mai avallato), e un fratello la cui altezza faceva quella di due calciatori medi e che probabilmente avrebbe avuto molte più chances nella pallacanestro, ero ormai rassegnata a respirare quell’aria funesta che si effondeva in casa dopo ogni partita del povero tapino, soffrendo per solidarietà fraterna.
La persecuzione si è perpetrata negli anni, quando mi sono fidanzata con un fedelissimo del pallone, e fin dall’inizio ho atteso per ore agli appuntamenti, inconsapevole del fatto che mentre io aspettavo, lui stava correndo dietro a una stupida palla. Negli episodi più critici, si è presentato con una ridicola rosa che gli avrei fatto ingoiare. Da allora ho dichiarato definitivamente guerra spietata al calcio, e senza riserva di armi: all’occorrenza mi sarei giocata anche il nucleare, che tradotto significa ricatto.
Penso di essere una delle poche persone ad arrivare a trentacinque anni senza aver mai visto una partita allo stadio: d’altra parte che senso avrebbe, quando non so nemmeno cosa sia un rigore o un fuorigioco?
Fatto sta che qualcuno ha pensato fosse un tassello mancante della mia formazione culturale, e così il giorno 19 marzo 2006, invitata da alcuni addetti ai lavori, mi ritrovo davanti all’immenso stadio Friuli, alla disperata ricerca della porta numero 29, e già mi metteva in crisi il fatto che ci fossero ben ventinove porte.
L’angoscia di ritrovarmi prigioniera della mia piccola macchina sollevata da quattro erculei ultrà borchiati, lerci e puzzoni, mi induce a farmi largo esibendo la tessera dell’ODG per trovare almeno un parcheggio sorvegliato. Ma l’incubo della folla animale lascia il posto a una visione ben più rassicurante di uno stadio semivuoto e tranquille famigliole che si avvicinano a piedi.
Sbrigate le formalità d’imbarco, raggiungo i responsabili di tutto ciò in tribuna stampa, dove già mi sento un pesce fuor d’acqua: l’unica senza un portatile, l’unica che non dà nemmeno uno sguardo al foglietto con la formazione. E abbiate pazienza, insomma: è già un problema ricordarmi quale delle porte corrisponda alla squadra, come potete pretendere che ad ogni azione significativa riesca contemporaneamente a collegare il numero della maglia al nome del calciatore? Ovviamente sempre che mi renda conto di quando un’azione è significativa.
Già dai primi calci la noia prende il sopravvento, e pondero che se almeno fossi stata dall’altra parte dello stadio, avrei potuto prendere il sole. Ma per fortuna non tutti sono insensibili alla mia ignoranza, e Rita (che in realtà dovrebbe scrivere) si fa carico della mia situazione e rimedia come solo lei sa fare. Si parla a ruota libera, incuranti di quello che succede sotto. C’è chi si chiede indispettito se per caso pensiamo di essere dalla parrucchiera, e chi si premura di avvertirci che la palla è entrata in rete. Quattro volte, per la precisione, e non ne becco neanche una. Poco importa: non saprò mai chi ha fatto goal, ma sono informata di tutti i pettegolezzi della squadra e non solo, perché adesso conosco anche qualche calciatore, mi sono informata preventivamente. Mi avevano detto "visto che non capisci una fava di calcio, almeno scegliti una squadra esteticamente interessante". E avevo scelto la Fiorentina, per via di quel Luca Toni, veramente molto interessante. Ma perdo il turno e mi becco il Milan, squadra già antipatica di per sé, senza per altro conoscere nemmeno un componente della formazione. Poco importa, da lassù non si vede proprio niente, e anche se si vedesse, sarebbe uguale: il calcio non fa per me, proprio no.
Mi accontento del lato folcloristico, i mondiali da guardare tutti insieme in terrazza con le salsicce sulla griglia, temutissimo da fidanzati e mariti che già stanno divulgando il noto decalogo in circolazione, quello che mia cognata ha ben presente perché le è stato affisso in cucina.
A differenza delle olimpiadi dove c’è par condicio, durante i mondiali la donna rischia di passare per una mentecatta. Io mi sono guadagnata il mio bel gagliardetto alla stupidità già da qualche mondiale, dichiarando apertamente di tifare per il Brasile. "I Brasiliani avevano solo Senna e il calcio. Senna è morto, ed ora è giusto che nel calcio trovino la loro soddisfazione". Spiacente, cartellino rosso.
La sigla di “Novantesimo minuto”, accompagnata dal fischio della pentola a pressione e l’odore del brodo, conferiva alle mie domeniche un nonsoché di uggioso, quell’insostenibile e deprimente tedio che ti può far venir voglia perfino del lunedì. E’ da quelle odiose sere che ho cominciato a sviluppare l’avversione per il mondo calcistico. Una volta ho pensato anche di essere stata punita. Avevo otto anni quando mio nonno mi lasciò in macchina per un lasso di tempo troppo breve per chiamare telefono azzurro e troppo lungo per non imparare a memoria tutta la nazionale del ’78, visto che c’era da leggere solo il prezioso vademecum per i mondiali. Lo shock è stato talmente forte, che ancora oggi mi ricordo la formazione: Zoff, Cabrini, Boninsegna, Tardelli, Rossi, Conti, Sala, Gentile, Bettega, Scirea, Benetti, Causio... il che per me è un record.
Con un padre che si è sempre fregiato di una dote calcistica non sottovalutabile (che però nessun cronista dell’epoca ha mai avallato), e un fratello la cui altezza faceva quella di due calciatori medi e che probabilmente avrebbe avuto molte più chances nella pallacanestro, ero ormai rassegnata a respirare quell’aria funesta che si effondeva in casa dopo ogni partita del povero tapino, soffrendo per solidarietà fraterna.
La persecuzione si è perpetrata negli anni, quando mi sono fidanzata con un fedelissimo del pallone, e fin dall’inizio ho atteso per ore agli appuntamenti, inconsapevole del fatto che mentre io aspettavo, lui stava correndo dietro a una stupida palla. Negli episodi più critici, si è presentato con una ridicola rosa che gli avrei fatto ingoiare. Da allora ho dichiarato definitivamente guerra spietata al calcio, e senza riserva di armi: all’occorrenza mi sarei giocata anche il nucleare, che tradotto significa ricatto.
Penso di essere una delle poche persone ad arrivare a trentacinque anni senza aver mai visto una partita allo stadio: d’altra parte che senso avrebbe, quando non so nemmeno cosa sia un rigore o un fuorigioco?
Fatto sta che qualcuno ha pensato fosse un tassello mancante della mia formazione culturale, e così il giorno 19 marzo 2006, invitata da alcuni addetti ai lavori, mi ritrovo davanti all’immenso stadio Friuli, alla disperata ricerca della porta numero 29, e già mi metteva in crisi il fatto che ci fossero ben ventinove porte.
L’angoscia di ritrovarmi prigioniera della mia piccola macchina sollevata da quattro erculei ultrà borchiati, lerci e puzzoni, mi induce a farmi largo esibendo la tessera dell’ODG per trovare almeno un parcheggio sorvegliato. Ma l’incubo della folla animale lascia il posto a una visione ben più rassicurante di uno stadio semivuoto e tranquille famigliole che si avvicinano a piedi.
Sbrigate le formalità d’imbarco, raggiungo i responsabili di tutto ciò in tribuna stampa, dove già mi sento un pesce fuor d’acqua: l’unica senza un portatile, l’unica che non dà nemmeno uno sguardo al foglietto con la formazione. E abbiate pazienza, insomma: è già un problema ricordarmi quale delle porte corrisponda alla squadra, come potete pretendere che ad ogni azione significativa riesca contemporaneamente a collegare il numero della maglia al nome del calciatore? Ovviamente sempre che mi renda conto di quando un’azione è significativa.
Già dai primi calci la noia prende il sopravvento, e pondero che se almeno fossi stata dall’altra parte dello stadio, avrei potuto prendere il sole. Ma per fortuna non tutti sono insensibili alla mia ignoranza, e Rita (che in realtà dovrebbe scrivere) si fa carico della mia situazione e rimedia come solo lei sa fare. Si parla a ruota libera, incuranti di quello che succede sotto. C’è chi si chiede indispettito se per caso pensiamo di essere dalla parrucchiera, e chi si premura di avvertirci che la palla è entrata in rete. Quattro volte, per la precisione, e non ne becco neanche una. Poco importa: non saprò mai chi ha fatto goal, ma sono informata di tutti i pettegolezzi della squadra e non solo, perché adesso conosco anche qualche calciatore, mi sono informata preventivamente. Mi avevano detto "visto che non capisci una fava di calcio, almeno scegliti una squadra esteticamente interessante". E avevo scelto la Fiorentina, per via di quel Luca Toni, veramente molto interessante. Ma perdo il turno e mi becco il Milan, squadra già antipatica di per sé, senza per altro conoscere nemmeno un componente della formazione. Poco importa, da lassù non si vede proprio niente, e anche se si vedesse, sarebbe uguale: il calcio non fa per me, proprio no.
Mi accontento del lato folcloristico, i mondiali da guardare tutti insieme in terrazza con le salsicce sulla griglia, temutissimo da fidanzati e mariti che già stanno divulgando il noto decalogo in circolazione, quello che mia cognata ha ben presente perché le è stato affisso in cucina.
A differenza delle olimpiadi dove c’è par condicio, durante i mondiali la donna rischia di passare per una mentecatta. Io mi sono guadagnata il mio bel gagliardetto alla stupidità già da qualche mondiale, dichiarando apertamente di tifare per il Brasile. "I Brasiliani avevano solo Senna e il calcio. Senna è morto, ed ora è giusto che nel calcio trovino la loro soddisfazione". Spiacente, cartellino rosso.
3 Comments:
What a great site, how do you build such a cool site, its excellent.
»
Nice idea with this site its better than most of the rubbish I come across.
»
Great site loved it alot, will come back and visit again.
»
Posta un commento
<< Home